lunedì 1 ottobre 2012

Autobiografia in forma di trasloco

Sono state cinque case in poco meno di tre anni.
Che gli zingari, in confronto, sono soltanto principianti.

La prima è stata la casa dell'amore e non la dimenticherò mai.
Era una ringhiera lunga tre continenti, piena dei panni colorati dei vicini del Senegal, del profumo di aglio dalla cucina di Rodica, delle grida rabbiose della vecchia barotta per le feste piene di sangria delle studentesse spagnole. E c'erano le francesi che si chiudevano fuori casa e venivano fino in mansarda da noi a chiedere asilo e i cinesi che passavano rasenti i muri senza fare rumore.
C'era lei, che rideva quando mi vedeva parlare con Mohamed che camminava scalzo sul tetto mentre mi spiegava come attaccarmi abusivamente alla parabola di quelli del terzo. E lei ideva e sbucciava castagne da offrire lungo tutto il ballatoio.
Erano giorni come una festa.   

La seconda è stata la casa del dovere e ne sono fuggito.
Grande per accogliere gli amici e bella da non volere andar via, ma mi ha gelato il cuore la perfezione a cui ambiva lo spazio, la composizione perfetta dei ruoli. Avrei dovuto essere perfetto anche io, come i muri appena rasati e dipinti di bianco, ma non ho forma e sono passato in vapore sotto la porta.
Ho pagato caro il dolore lasciato con il nero della mia colpa.

La terza è stata la casa della libertà, dove ho imparato la menzogna. 
Le parole che hanno riempito le piccole stanze ed i giorni erano fatte di niente, come chi le diceva, come di niente era fatta la mia voglia di stare, il futuro ed i muri di carta velina. Con la vicina giocavamo a chi scopava più forte e ci trovavamo la sera sul balcone a fumare: io l'ho fatta gridare di più, le mormoravo ridendo mentre le passavo l'accendino e lei si stizziva e cambiava ragazzo.
Io non cambiavo mai, ma eracome se cambiassi ogni sera.

La quarta casa è stata quella della solitudine, dove mi sono specchiato.
E' stata la tana, il buco, l'antro. Fredda, silenziosa, buia.
La casa dell'esilio, in cui il gatto scaldava più della pelle diafana di chi certe sere mi veniva a dividere il letto. Ho imparato in quel vuoto che le belle parole fanno la pelle trasparente e che per guardarmi davvero non mi servono gli occhi degli altri, mi basta fissare lo specchio e non lasciarmi spaventare dal mostro che ci abita dentro.
Con il peso di quello che sono, ho cominciato a camminare. 

E poi c'è la quinta. 
La quinta che sarà la casa.
Che ieri c'ho dormito per la prima notte, tra cartoni e valige da disfare.
Ma appena uscito, nemmeno il tempo di finire di fumare ed ero davanti al mare.